Flumeri, l’industrializzazione di Valle Ufita e la scomparsa degli artigiani
Intorno alla metà degli anni Sessanta, Flumeri era, in gran parte, un paese di braccianti agricoli, artigiani e piccoli proprietari terrieri, disseminati sull’intero territorio comunale. Questi ultimi portavano avanti, con il proprio nucleo familiare, l’attività agricola, mentre i braccianti per lo più prestavano la loro opera per le quattro o cinque famiglie latifondiste del paese.
Gli artigiani erano numerosi e avevano le loro botteghe al centro storico del paese. Si contavano numerosi falegnami, calzolai, sarti uomini e donne, muratori e finanche autonoleggiatori, che facevano la spola tra Flumeri e Grottaminarda, specialmente per il mercato settimanale del lunedì.
Con l’avvento dell’industrializzazione, iniziata a Flumeri nei primi anni Settanta, la maggior parte di questi mestieri sono scomparsi, per l’assorbimento della manodopera nello stabilimento IRIBUS di Valle Ufita. Il polo industriale di Valle Ufita ha portato senza alcun dubbio benessere all’intera comunità. E si spera che ciò possa continuare nel tempo, favorendo le nuove generazioni che si affacciano al mondo del lavoro, evitando o per lo meno rallentare il fenomeno dell’emigrazione giovanile.
Di coloro che praticavano tutti i mestieri summenzionati, sono rimasti solo due barbieri. A tal proposito abbiamo parlato con Antonio Moschella che, insieme alla consorte, iniziò l’attività di sarto/barbiere nel 1947 e con Rocco Giacobbe che, insieme ad altri quattro fratelli, ha portato avanti una falegnameria. Antonio e Rocco oggi sono pensionati.
Antonio Moschella, con la sua memoria di ferro di ottantanovenne, ha elencato tutti i vari artigiani di Flumeri, aggiungendo anche altre attività che all’epoca si praticavano, come lo Scardalana o il Pelaoche. Nell’attività di sarto/barbiere, è stato colui che ha insegnato questi mestieri a molta gente del posto e dei paesi vicini, non essendoci a quei tempi scuole di apprendistato nella zona della Baronia.
“Nel 1947, non era facile fare il barbiere come lo è oggi, non esistevano gli utensili usa e getta, tutto era manuale: rasoi, macchinette e forbici. I rasoi venivano affilati su una pietra chiamata “ il Paraone “ e susseguentemente la lama veniva ulteriormente affilata sulla “ Strappa “ , una striscia di cuoio rigido. Il lavoro non aveva soste, si lavorava per tutti i sette giorni della settimana. Due volte a settimana andavo nelle campagne, con l’ausilio di una moto fin dove era possibile, altrimenti a piedi, perchè non c’erano strade asfaltate come oggi, ma solo strade mulattiere. Per finire, a quei tempi non tutti avevano la possibilità di pagare di volta in volta e allora si ricorreva all’abbonamento annuale, specialmente i contadini che pagavano ¼ di grano a persona, che si riscuoteva al termine della trebbiatura. A quei tempi, per chi non aveva la possibilità di studiare, avere un mestiere equivaleva ad avere una laurea”.
Anche Rocco Giacobbe ricorda quei tempi perchè, insieme ad altri quattro fratelli, portava avanti una falegnameria.
“ Siamo stati primi a Flumeri a fornirci delle prime macchine di falegnameria elettriche, sega e piallatrice, perché tutto era manuale e faticoso, poi con l’avvento dell’industrializzazione, abbandonai l’attività di falegname per un impiego all’Anas come stradino. Anche se oggi sono in pensione, conservo ancora i macchinari e apro per nostalgia ogni giorno la serranda della bottega, a ricordo dei tempi passati”.
Oggi gli abitanti di Flumeri, per servirsi di un calzolaio o di un sarto, devono recarsi a Grottaminarda. Si potrebbe ovviare a tali carenze, se soltanto l’Italia cercasse di emulare i Paesi arabi del Golfo, dove gli stanziali non praticano lavori artigianali, ma danno lavoro ad artigiani provenienti dal Pakistan e dall’India. Così, si darebbe un diverso approccio, all’immigrazione clandestina.
Carmine Martino