“Lettera ad un giudice” il racconto epistolare di Paolo Saggese nella recensione di Lucio Garofalo

Ho letto “Lettera a un Giudice” di Paolo Saggese. È un bel romanzo epistolare che racconta l’amara vicenda, non autobiografica (almeno così precisa l’autore), di un “secchione” (inteso qui in un’accezione simpatica) che, non essendo raccomandato, fallisce la prova di un concorso per dirigenti pubblici, per cui decide di rivolgersi ad un magistrato per offrire libero sfogo al suo sdegno contro la corruzione della società. La trama narrativa è ambientata in un paese immaginario denominato Repubblica dei Pomodori. L’idioma nazionale è il pomodorese, i gendarmi sono pomodoresi, tutto è pomodorese. Certo, l’autore non sembra essersi arrovellato troppo l’immaginazione per inventare nomi di fantasia. Non mi pare originale l’idea ispiratrice che stimola la narrazione. La passione per il grande scrittore siciliano (Leonardo Sciascia) si evince dai frequenti richiami alle opere e ai personaggi sciasciani: Candido, A ciascuno il suo, Il giorno della civetta ed altri contenuti nel romanzo. Il tratto che forse risulta meno originale, risiede in uno spunto ideologico moralistico ovvero (come si direbbe oggi) giustizialista. Questa valutazione critica non vuol essere affatto una stroncatura nei confronti della prima fatica letteraria di questo autore mio conterraneo. Il quale è un intellettuale esperto in lettere classiche, umanista e critico letterario, per cui non potrei competere con l’autorità e l’erudizione dello studioso. Non possiedo la perizia necessaria ad esprimere un giudizio pertinente a livello tecnico-letterario. Mi limito ad osservare che il registro stilistico del romanzo, per quanto lieve e scorrevole, nient’affatto stucchevole, né volgare (ed è già tanto di questi tempi) non risponde al mio personale gusto estetico. Trattasi di un giudizio soggettivo e relativo. Il romanzo si legge tutto d’un fiato, non è mai tedioso, ma non sono riuscito ad intravedere il fuoco che infiamma il genio, l’inquietudine o il pathos che assale lo “spirito guerriero” dello scrittore. Per me la letteratura e l’arte non sono uno “specchio” che riflette il mondo reale, bensì una sorta di “martello” che picchia sull’incudine con furia e sofferenza per plasmare e modificare lo stato di cose esistente. Scrivere, dipingere, scolpire, esigono un ardore militante, una tensione o una pulsione rivoluzionaria. È una battaglia in cui l’artista si cimenta in modo indiretto, senza tessere di partito. Ciò esalta il valore autentico dell’arte, che altrimenti non sarebbe in grado di esternare nulla. Aggiungo una chiosa conclusiva, ma non esaustiva. Non basta saper scrivere per fare di un autore un grande scrittore.

Lucio Garofalo

Loading