Quarantuno anni dopo quel 23 novembre 1980: lettera aperta all’Irpinia

Oggi sono 41 anni dalla ferita che ti ha inciso in profondità. Ogni anno si rispolvera il capitolo, si mette concime al ricordo. Ma ricordare ha un prezzo elevato. Nel 1980 non ero ancora nata; sono venuta al mondo l’anno dopo, quando erano evidenti gli affanni che t’impedivano di ripartire, di rinascere, di tornare al mondo. Sono stata battezzata nel 1981 in una chiesa prefabbricata, anche lì c’era Dio e si ricevevano i sacramenti. Mio padre e mia madre mi hanno parlato spesso della giornata che ti ha reso orfana di speranza, che ha restituito solo vittime dalle crepe del tuo grembo. Quel giorno la sventura ti ha messo davanti ad una triste verità, difficile da digerire, dura da accettare, come duro è il lavoro per arare le tue terre. Si era chiuso un orizzonte seguito da una sequela di indifferenza verso il tuo destino: l’importante era solo ricostruire, rimpiazzare il fondo pubblico, curare l’estetica delle abitazioni ma non il proprio uso e le urgenze di chi vi doveva abitare. Sul tuo dorso sono comparse tante cattedrali del progresso, perché s’incitava alla crescita industriale, alla crescita del PIL, alla dittatura del progresso: intanto venivi snaturata da uno sviluppo che stentava a decollare o aveva la rapida durata di pochi anni. Poi hai intrecciato il rosario delle partenze: le case nuove non bastavano, erano inutili. Le case nuove venivano chiuse, arriva così il saldo dell’emigrazione che ti ha sempre portato la sua triste fattura. Anche i miei nonni paterni sono stati emigranti: sono andati negli Stati Uniti dopo la seconda guerra, ma poi sono ritornati, perché il seme dell’origine era stato piantato nel tuo ventre ed era giusto che maturasse lì. Anche io sono seme, frutto, pianta della tua terra, terra amara ma amata nell’intimo. Ammetto che ho sempre ringraziato, a cuore aperto, mio padre e mia madre per avermi piantato nelle tue argille. Non ho pensato nemmeno per un attimo di abbandonarti. Non c’è giorno che non pensi a te, a come portarti nel mondo con la riverenza che un figlio deve a chi lo ha concepito. Vedi il mio bene per te è incondizionato. Spesso di te resta l’immagine delle foglie che d’autunno cadono dai rami, accartocciate nel destino di una solitudine senza fine. Io cammino dentro la tua solitudine, cammino in silenzio e lentamente, perché ho bisogno di aprire gli occhi, di non essere schiacciata dalla menzogna, dall’illusione stantia delle vetrine delle grandi città, dei grandi centri. Loro non sanno che farsene del tuo contegno, della tua solenne compostezza. Io non so che farmene delle tare nevrotiche dei luoghi del centro. Scrivo queste riflessioni pensandoti, pensando ai tuoi luoghi sacri, ai tuoi alberi, alle tue strade, al tuo religioso ritiro. Ecco, dopo averti pensata, mi sento diversa, mi sento rigenerata, c’è tanta aria ad ossigenarmi, c’è una vita ad attendermi, ad attenderci, c’è un soffio venerato sulle nostre emozioni, un soffio puro, un soffio al cuore.

Michela Marano – Docente e scrittrice irpina

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